Dopo aver trascorso diciotto mesi di prigionia, la venticinquenne milanese Silvia Romano è rientrata in Italia da donna libera. Questa notizia è subito passata in secondo piano rispetto a un’altra: Silvia – Aisha – è rientrata in Italia come donna musulmana. Il giornalismo e il pubblico italiano hanno immediatamente accolto la notizia della conversione di Aisha all’Islam con aperta aggressività o mettendone tendenziosamente in dubbio la genuinità. Sono stati avanzati commenti sulle condizioni psicologiche, ambientali e spirituali che determinano una conversione, su quali siano gli elementi che la rendono valida, sui se e i come di una scelta spirituale come potenziale atto politico, e così via. In una messa a punto del problema, Davide Piacenza ha scritto: “[I]l punto è che dovremmo fermarci prima di avanzare una qualsiasi di queste domande. O meglio ancora chiederci perché ce le stiamo chiedendo”. In altre parole: Quali sono le radici di questa aggressiva fascinazione per la conversione di una donna a una fede diversa?
Il nucleo del problema risiede nel fatto che la spiritualità e il corpo delle donne che si convertono sono un campo di battaglia in cui si condensano costrutti ideologici e fantasie di assimilazione e rifiuto dell’altro.
Le coordinate di questo campo di battaglia hanno radici antiche. La letteratura medievale pullula di donne che si convertono. La conversione a cui i lettori occidentali sono più abituati è quella dalla fede islamica al cristianesimo: nella Chanson de Roland (Francia, ca. 1090), la regina di Saragossa, Bramimonda, viene presa in ostaggio da Carlo Magno dopo la sconfitta del marito e condotta di forza in Francia. Qui si converte al cristianesimo, viene ribattezzata con un nome cristiano, Giuliana, e termina i suoi giorni in una comunità di donne. In un altro romanzo cavalleresco che ebbe per secoli immensa popolarità in tutta Europa, e che fu tradotto in italiano con il titolo Buovo d’Antona, un’altra nobile musulmana, Drusiana, principessa d’Erminia, si converte al cristianesimo. La sua conversione avviene senz’ombra di ripensamento: Buovo dichiara che non sposerà mai una donna non cristiana, e Drusiana è talmente infatuata di lui che non ci pensa due volte ad abbandonare sia la sua fede che la sua famiglia.
La conversione di donne pagane o musulmane al cristianesimo è uno strumento tipico della narrativa popolare dell’Europa cristiana, pensato per appagare fantasie di lettori che sognavano la sottomissione del Mediterraneo orientale e ne vagheggiavano il lusso. Queste donne sono tutte nobili e circondate da un’aura di esotica ricchezza. Sono tutte belle oltre ogni misura. Sono anche minacciose per le loro capacità intellettuali e professionali: Bramimonda è una regina volitiva, Drusiana è un’esperta di medicina. La conversione al cristianesimo le trasforma in modelli di femminilità docili e accettabili. Il caso di Bramimonda è quello più evidente: dopo la conversione, questa loquace regina scivola nel silenzio e nell’oblio tra gli innumerevoli trofei di Carlo Magno. Drusiana diventa la perfetta eroina cristiana, una campionessa di virtù. Di tanto in tanto, Buovo deve bacchettarla perché Drusiana prende troppo spesso l’iniziativa invece di lasciare a lui, l’eroe, l’azione e la gloria delle armi, ma il modello è lì, pronto per il lieto fine: Buovo e Drusiana concluderanno le loro vite in odore di santità. Le principesse convertite al cristianesimo diventano madri di santi ed eroi: la principessa turca Fenisia, dopo la conversione, dà alla luce il Guerrin Meschino, eroe dell’oponimo romanzo cavalleresco di Andrea da Barberino (ca. 1410); una tarda ma diffusissima leggenda vuole che la madre di Thomas Becket (1118-1170), arcivescovo inglese assassinato nella cattedrale di Canterbury, fosse una principessa musulmana convertita al cristianesimo. Gli esempi sono numerosi e provengono da tutte le tradizioni letterarie europee.
La conversione della bella musulmana al cristianesimo è il frutto di un desiderio di dominare donne “altre” e di inglobare la loro spiritualità e i loro corpi in un formato sicuro, devoto e pudico. Nella conversione di segno opposto, dal cristianesimo all’Islam, si coagulano le stesse ansie e gli stessi desideri, con una differenza: in nessuno di questi casi si concepisce la possibilità di una conversione libera, sincera e genuina. In La fille du Compte Pontieu (ca. 1250), l’eroina eponima decide di convertirsi perché semplicemente non ha scelta; in un’altra versione di questa storia, la dama di Ponthieu si converte e abbandona voluttuosamente all’amore del sultano perché delusa dal suo primo amore. In un romanzo cavalleresco inglese intitolato The King of Tars (ca. 1330), la protagonista femminile, una nobile principessa cristiana, si sacrifica e accetta di sposare il ricchissimo sultano di Damasco, e perché il matrimonio sia valido è costretta a convertirsi all’Islam. L’autore trasforma questa conversione forzosa in un rituale: la principessa è costretta a baciare uno per uno tutti gli idoli venerati dai musulmani (il Medioevo occidentale aveva un’idea piuttosto confusa della religione islamica) e “le sono fatti indossare i ricchi abiti / indossati dalle donne islamiche” (vv. 381-82). Immaginando questi abiti lussureggianti, ricchi ed esotici come il sultano che li aveva ordinati per la sua sposa, il lettore medievale prova un misto di indignazione e piacere. L’autore del romanzo cavalleresco l’avrebbe presto rassicurato: la principessa ha mentito ed è rimasta segretamente devota al Dio cristiano. Per di più, le donne che si convertono dal cristianesimo all’Islam, nella letteratura medievale, non generano eroi, bensì mostri. La principessa di The King of Tars partorisce un amasso di carne senza forma, che soltanto il battesimo – la restaurazione della fede e dell’ordine – può salvare.
Queste storie appartengono a un passato molto lontano, ma non troppo. Prendiamo ad esempio un personaggio del nostro passato più recente, Lady Diana (1961-97). Dopo la sua separazione da Carlo, principe di Galles, Diana frequentò un cardiochirurgo di origine pakistana, Hasnat Khan. La relazione durò per un paio d’anni e fu, come tanti eventi della vita privata di Diana, oggetto di numerosi pettegolezzi. Nella celebrata biografia della principessa pubblicata da Tina Brown, The Diana Chronicles (New York, 2007), si legge che durante la relazione di Diana con Khan
“Il suo armadio si riempì di una variopinta selezione di shawal kameez, la tunica e i pantaloni in seta lucente indossati dalle donne pakistane. Prese in considerazione di convertirsi all’Islam. La colpì che Khan si rifiutò per motivi religiosi di consumare la loro relazione fino alla sera in cui il suo divorzio fu ufficializzato.” (pp. 241-42)
Il caso di Diana è uno fra le decine documentate nel mondo contemporaneo in cui la conversione all’Islam di una donna, vera o supposta che sia, trasforma la sua spiritualità e il suo corpo in un oggetto di fascinazione e linciaggio. In Diana and Beyond: White Femininity, National Identity, and Contemporary Media Culture (Urbana, 2014), Raka Shome ha spiegato che in tutti questi casi, le reazioni mediatiche hanno prodotto immagini distorte della femminilità occidentale (oltre che, ovviamente, del mondo non cristiano con cui queste donne hanno interagito). Come nel caso della principessa di The King of Tars, anche per Lady Diana l’avvicinamento all’Islam è rappresentato come un rituale in cui l’adozione di un certo tipo di abbigliamento, la consumazione di un rapporto sessuale e la conversione sono parte di uno stesso conglomerato di fascinazione e repulsione. In questa prospettiva, non è un fatto casuale che i giornalisti e il pubblico italiano abbiano sviluppato una vera e propria ossessione con l’abbigliamento di Aisha Romano; come non è un fatto casuale che siano state immediatamente avanzate illazioni sulla sua prigionia che forzano un’interpretazione amorosa o sessuale della sua conversione.
Nell’immaginario occidentale, medievale e contemporaneo, esistono dunque due tipi di conversione femminile: una conversione “comoda” dall’Islam al cristianesimo, che nella narrativa popolare cristiana risolve i problemi, scioglie nodi narrativi e garantisce eroismo e santità; e una conversione “scomoda”, di segno opposto, che i lettori dei romanzi cavallereschi medievali e dei giornali contemporanei non riescono a concepire se non come forzata, falsa, non genuina, una conversione semplicemente inaccettabile che genera ansie, fobie e mostruosità. Un fatto dovrebbe, però, essere ben chiaro. Il problema di questa storia di conversione e di tutte le conversioni femminili che ho discusso, storiche o finzionali che siano, non è la conversione in sé, che per definizione è un evento spirituale, privato e individuale. Il problema è che una conversione – specialmente se si tratta di una conversione femminile – può diventare con estrema facilità l’epicentro di specifiche ansie nazionalistiche. Il problema è la fragilità strutturale di un certo tipo di identità sociopolitica, che riesce a proteggersi e ad affermare la propria esistenza soltanto con la violenza delle parole e delle illazioni.
Laura Ingallinella
Foto: Drusiana prega tra due leoni che vogliono attaccarla in una illustrazione delle Thaymouth Hours; British Library, Yates Thompson MS 13, c. 8v (Inghilterra?, ca. 1325)